L’economia circolare non è una moda passeggera né un’etichetta da apporre su politiche ambientaliste o strategie ESG. È molto di più: è una visione alternativa, e sempre più necessaria, del nostro sistema economico. In un momento storico segnato da crisi ambientali, instabilità geopolitica e scarsità di risorse, l’economia circolare si propone come una risposta strutturale alle distorsioni profonde del modello lineare, ancora oggi dominante.
Il paradigma “prendi, produci, consuma, getta” – quello su cui si è costruita l’economia industriale degli ultimi due secoli – ha portato con sé una lunga scia di effetti collaterali: spreco di risorse, inquinamento crescente, dipendenza da materie prime estere. L’economia circolare ribalta questa logica. Interviene a monte, già nella fase di progettazione, promuovendo un’industria capace di prevenire il degrado ambientale e ridurre la dipendenza da risorse finite. Significa ridisegnare prodotti che durano di più, sono riparabili, smontabili, riutilizzabili. Significa, in sintesi, cambiare il modo in cui produciamo e consumiamo.
L’Unione Europea ha colto la portata strategica di questo cambio di paradigma. Con il Clean Industrial Deal, Bruxelles punta a fare dell’Europa il primo continente pienamente circolare entro il 2030. Un obiettivo ambizioso, che non riguarda un singolo settore, ma l’intera agenda economica continentale. A confermarlo sono due voci autorevoli: Mario Draghi, nel suo rapporto 2024, identifica la circolarità come uno dei tre pilastri fondamentali per la competitività europea (insieme a innovazione ed energia); Enrico Letta, nel documento “Much more than a market”, va oltre: senza circolarità, non c’è futuro né per il pianeta né per il modello industriale europeo.
C’è anche una questione di resilienza economica. L’Europa importa gran parte delle materie prime strategiche di cui ha bisogno. L’economia circolare permette di ridurre questa dipendenza, valorizzando le risorse già esistenti, contenendo i costi, e costruendo una maggiore autonomia strategica.
Uno dei nodi chiave è il design. Ripensare il modo in cui i beni vengono progettati può fare la differenza. Un prodotto progettato per essere facilmente riparabile o aggiornabile riduce l’uso di nuove risorse e prolunga la sua vita utile. Un ambito, questo, in cui l’Italia ha tutte le carte in regola per giocare un ruolo da protagonista, grazie alla propria cultura industriale, creativa e manifatturiera.
Ma c’è un equivoco da chiarire: ridurre l’economia circolare al semplice riciclo è un errore. Il riciclo è l’ultima spiaggia, non il punto di partenza. L’obiettivo reale è zero rifiuti, o almeno una drastica riduzione degli stessi. In gioco non c’è solo l’ambiente, ma un nuovo modello di efficienza e trasformazione industriale.
I numeri parlano chiaro. Secondo un rapporto della World Bank, tra il 2000 e il 2015 l’umanità ha consumato la metà delle risorse utilizzate in tutto il XX secolo. E la curva continua a salire. Paradossalmente, oggi riciclare plastica costa più che produrla da zero, anche a causa di incentivi distorti che ancora premiano il modello lineare. Serve una revisione fiscale coraggiosa: meno tasse sul lavoro, più tasse sull’uso di risorse naturali.
Persino Papa Francesco, nella sua omelia di insediamento del 18 maggio, ha denunciato i danni causati da un’economia che sfrutta senza rigenerare, lasciando indietro i più fragili. Le sue parole si inseriscono in un coro sempre più ampio che chiede una conversione economica e culturale.
In definitiva, ciò che emerge con forza è che l’economia circolare non è un’opzione, ma una necessità. Una traiettoria obbligata se vogliamo affrontare seriamente la crisi ambientale, rilanciare la competitività industriale europea e costruire una società più giusta e inclusiva.
Ecco perché, in questa nuova puntata del podcast, ci interroghiamo su come raccontare questa trasformazione e su quale strada intraprendere per renderla reale. Non si tratta di aggiustare un sistema in difficoltà: si tratta di cambiarlo radicalmente.